
“μίνυνθα δὲ γίγνεται ἥβης καρπός,
ὅσον τ’ ἐπὶ γῆν κίδναται ἠέλιο”
“Fulmineo precipita il frutto di giovinezza,
come la luce d’un giorno sulla terra.”
–SOLONE
Lidia or non ti ravvedi
che cinta sei tu di candida luce
e che di venustà ristori il mondo?
Eppur la vita truce
non asterrà i suoi nembi
dal tuo tenero capo,
ma sottrarratti il sole
onde sbocciavan viole
sul tuo sentier fatato.
Tu giochi per pie campagne e ville,
odi il tinnar di squille ire dal monte
e di tinnulo canto ornare il fonte.
Or fra vaghe imago lieta vivendo
del tuo futur non curi altro che sogni.
Incerto ove tu agogni,
eppur, sanza cura, innocua vi speri:
non nuoce al tuo vagare alcuno inciampo.
Gioisci che ben n’hai d’onde
e va’ cercando il tuo viver ilare,
come l’augel infra l’amate fronde
il cibo onde si pasca.
Ancor tu tieni il cinto1
sul pudico tuo fianco
e per li prati vai cantando allegra,
all’aere sparte le violacee chiome.
Ahi sì quanta dolcezza
vita pur vana prome!
Poi lasci aleggiar le vesti al refolo
che auliscono e brillano nel sereno,
recando nel tuo candido seno2
coccole e fior vivaci
e pian colla tua vereconda mano
trai dal grembo i bei frutti spiccaci.
Oh come del sol beata ti rallegri
mentre pei poggi voli,
abbandonando retro all’agil dorso
pei dolci zefiri l’infule rosee,
quando sui floridi campi sfiorano
gli orli bianchi della tua tenue veste.
Tu solamente speri
che non il tuo futuro
sia mai feroce e duro
e che il viver ti spetti ognor felice,
ma pur questo non lice
alla progenie umana.
Or senti vociar retro al tuo cammino
l’umana gente che di beltà ristori
e pudibonda odi come di vanto
ricoprano già il tuo fatale incanto.
Sì amata e di guardi adornata
richiudi dentro al tuo virgineo core
la speme e il soave amore
che sì te fan desiata.
Oh lucerna d’alma vita ridente
ch’ogni animal vivente
col dolce sguardo lungi dal tempo involi,
non v’è creatura alcuna
che sia tanto feroce che al tuo pio mirar
l’animo non consoli.
Ma tosto il tuo vital incanto vedrai
senza pietà distrutto,
il tuo sentier fiorito arido e brutto
e gli sguardi inclementi
sul tuo viver imporre dell’empia sorte
che tutti volge a morte
e gir per le mondane strade paventerai,
misera dell’avvenir non più soave.
Allor sempre più grave
ti fia il vivere errante.
Tale sarà quel tuo tempo imparziale,
quando tu infida crederai la vita
e di speranza ignuda
ed inclemente e cruda,
quando, senza più ardor, non renitente
solo la morte vedrai pia e innocente.
Ma or del viver godi il bel sembiante
fintanto che sul tuo canuto crine,
come candida viorna
sulla tua via inadorna,
l’orrida buia morte non incomba
e non porrai le tue gelide membra
dentro un’oscura tomba.
1 Il cinto è segno di vereconda castità o di casta verecondia già presso gli antichi. Sciogliere la cintura(ζωνιον,zoníon) è invito all’amplesso: a tal proposito si veda l’epigramma di Asclepiade sull’ Antologia palatina V,158. 58
2 Non va inteso con “petto” ma con “grembiale” dal latino “sinus”. Tale accezione è attestata nella letteratura,come in Petrarca “herba et fior” che la gonna/leggiadra ricoverse/co l’angelico seno” in Rerum vilgarium fragmenta (Canzoniere) CXXVI,9
Alessio Palaia