
Mai come ora mi sento persuaso di quel che andava sostenendo in un capitolo del suo libro Maschilità il Papini, operando, o almeno condividendo nell’operare, una suddivisione fondamentale tra le due letterature, chiamandone poi una maschia, e l’altra femmina.
Le parole sono importanti, e io ritengo quelle due, oggi, un poco obsolete e anacronistiche, se non quasi reazionarie. Se la scelta delle parole, in un discorso, è importante allo scopo di farle capire per come chi le scrive le intende inizialmente, allora è fondamentale lasciare un attimo in secondo piano le parole maschio e femmina, ‘sendo stati al giorno d’oggi pressappoco superati tutti quegli stereotipi datati, e rimessi i loro significati alla soggettività delle persone. La qual cosa mi sta bene, ma mi impedisce di poterle usare per un discorso che non sia frainteso o accolto come offesa. L’analisi del Papini, o quella d’altri che però lui si è sentito di condividere e di riportare nel sopracitato libro, si basa su due nuclei fondamentali, che si ritrovano in letteratura, e che ci permettono una prima e fondamentale distinzione tra le opere del nostro Paese.
Il primo nucleo è quello di un’arte massiccia, compatta, diretta e sincera – plebea; il secondo racchiude i concetti di raffinato, soave, imitativo e decorativo – mondana. I precursori di questa distinzione si possono ritrovare da una parte nel plebeo Fili de le pute traite! e dall’altra nei cortesi sonetti dei poeti siciliani, come nel Meravilliosamente del da Lentino. Quanto ai padri veri e propri, da una parte stanno Dante – ma anche Jacopone da Todi, il Machiavelli, l’Aretino, il Foscolo e tanti altri; e dall’altra Petrarca – con una buona partecipazione del Boccaccio, tutti i petrarchisti, gli arcadi e molti romantici. Un esempio della prima – altro che il verde delle foglie e l’oro dei frutti, tipici de’ giardini tasseschi e ariosteschi:
Non frondi verdi ma di color fosco,
Non rami schietti ma nodosi e involti,
Non pomi v’eran ma stecchi con tòsco.
Per confrontarlo e distinguerlo dalla seconda:
Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
Lascio immaginare, ma anche ricercare e convincersi dell’assurdità, nei sonetti dell’Aretino, qualche riferimento all’angelico seno.
O, in generale, ad una visione angelica e idealizzata della donna, dell’amore, del paesaggio. Quel ch’io vo’ fare ora non è prendermi il merito di questa distinzione, dal momento che ho riportato nome e cognome di chi me la fece scoprire – ma servirmene. Come?
Parto con la premessa: il cantautorato è una forma di poesia, di letteratura – d’arte, ma non solo in senso musicale.
Quest’opinione, con la quale molti concordano, è necessaria al ragionamento ch’io comincio a fare; perciò avviso chi non la pensa così, onde evitare di fargli perdere tempo utile. Ebbene, io pensa che la predetta distinzione possa essere operata anche coi cantautori d’oggi – ma sopratutto dello ieri. Tra il filone dei plebei, dei diretti, dei sinceri mi va di mettere, tra i tanti, sicuramente questi nomi: Califano, Tenco, Conte, de Andrè, Dalla, Gateano. Tra quello dei mondani, dei raffinati, dei soavi: Paoli, in parte Jovanotti, Bindi.
Si pensi a Tutto il resto è noia, a Pier Carlino, a La vacanza di fine settimana; si pensi a Cara maestra, a Giornali femminili, a Mi sono innamorato di te, a Come le altre; e ancora, a Disperato erotico stomp, a L’ultima luna. Ci si pensi, e poi li si confronti con Il cielo in una stanza, con Senza fine, con Che cosa c’è; con Bella, A te; con Il nostro concerto, La musica è finita. Ora, la lista è limitata a quello che io meglio conosco, e di cui con meno insicurezza mi spingo a parlare – ma ognuno può provare a filtrare secondo quei criteri la musica che ascolta.
Debbo anche aggiungere che il confine tra l’una e l’altra parte non è così netto, e la distinzione vuole essere un generalizzazione che non considera le eccezioni, quali potrebbero essere determinate canzoni. Non c’è uno di questi filoni ch’io preferisco, ma riconosco, come il Papini, che da una parte sta la sincerità, il concreto, lo scomodo da sentire; dal’altra una narrazione ideale, dolce, piacevole, mielosa.
Quando sei qui vicino a me
Questo soffitto viola
No, non esiste più
Io vedo il cielo sopra noi
Che restiamo qui
Abbandonati
Come se non ci fosse più
Niente, più niente al mondo
G. Paoli, Il cielo in una stanza
Si, d’accordo l’incontro
Un’emozione che ti scoppia dentro
L’invito a cena dove c’è atmosfera
La barba fatta con maggiore cura.
La macchina a lavare ed era ora
Hai voglia di far centro quella sera
Si d’accordo ma poi.
Tutto il resto è noia
F. Califano, Tutto il resto è noia
Due visioni a mio parere completamente diverse – lo spazio, i dettagli, le modifiche dell’atmosfera sono una conseguenza dell’amore, viste perciò come fondamentali in Paoli. In Califano sono ammesse, ma nella sua visione è qualcosa di trascurabile, tedioso. Il primo è più idealista, più astratto – il secondo più realista e concreto.
Chi vive in baracca, chi suda il salario
Chi ama l’amore e i sogni di gloria .
[…] Chi canta Prévert, chi copia Baglioni
R. Gaetano, Ma il cielo è sempre più blu
Ti sei fatto il palazzo sul Jumbo
Noi invece corriamo sempre appresso all’ambo
R. Gaetano, Spendi spandi effendi
Alla luce di quelli, si considerino questi:
io che amo solo te
io mi fermerò e
ti regalerò quel che resta
della mia gioventu’
S. Endrigo, Io che amo solo te
Lavoro cinque giorni a settimana, me faccio ‘n culo come ‘na campana, aspetto er Venerdì pe’ riposare, ma tu sei pronta già? pe’ ann? a sciare. […]“Aoh, io me so’ rotto li cojoni!”
F. Califano, La vacanza di fine settimana
E te lamenti che n’ho fatta una…
Ma so’ le cinque e ho cominciato all’una!
Io penzo che una fatta bene e mejo
Che dieci bottarelle da conijo,
[…] E levame ‘sta lingua da l’orecchio.
Me devo riposà, tre, quattro mesi
F. Califano,La seconda
La vita di coppia, l’amore, non sono sempre rosa e fiori: da una parte ci si ascolta per come siamo realmente – dall’altra per come ci piacerebbe essere.
Il mio mondo è cominciato in te
Il mio mondo finirà con te
Un sorriso ed io sorriderò
Un tuo gesto ed io piangerò
[…]E se tu mi lascerai
In un momento così
Tutto per me, quello che ho qui
Finirà con te
Bindi-Paoli, Il mio mondo
Riguardo allo spazio:
Poi torni vicino
E ti lasci cadere
Così nella sabbia
E nelle mie braccia
E mentre ti bacio
Sapore di sale
Sapore di mare
Sapore di te
G. Paoli, Sapore di sale
E ogni volta ci chiediamo
Se quel posto dove andiamo
Non c’inghiotte, e non torniamo più
[…]La paura che ci fa quel mare scuro
E che si muovo anche di notte
Non sta fermo mai
[…]Genova, dicevo, e un’idea come un’altra
[…]Lasciaci, tornare ai nostri temporali
Genova, ha I giorni tutti uguali
P. Conte, Genova per noi
Insomma, facile parlar del paesaggio quando si tratta di sole, mare azzurro, montagne verdi – paesaggi bucolici, che a forza d’essere abusati perdono un po’ di sostanza. Ma la realtà che si sente meno raccontare è quella della nebbia, del temporale; della vita cittadina notturna non sempre poetica nel senso classico. Ancora una volta, c’è chi canta quel che vuol essere sentito dagli ascoltatori- e c’è chi canta gli ascoltatori stessi.